Volkswagen, uno scandalo che scardinerà il modello Germania

di Wolfgang Munchau, con un articolo di Giuseppe Chiellino….segnalato da Romano Pisciotti

Molti scandali si sgonfiano. Altri sono destinati ad assumere dimensioni sempre più grandi. Il caso Volkswagen sarà di quest’ultimo tipo. Le sanzioni e le richieste di risarcimenti danni per la manipolazione da parte di VW dei test sulle emissioni potrebbero facilmente superare i 100 miliardi di euro. I costi economici complessivi dovrebbero, poi, rappresentare un multiplo di quell’importo, ben più dell’onere che la Germania avrebbe dovuto sopportare per l’uscita della Grecia dall’Eurozona.
Fatto ancora più rilevante, lo scandalo Volkswagen ha tutte le potenzialità per scardinare il modello economico tedesco. La Germania ha posto un affidamento esagerato sull’industria dell’auto, così come l’industria dell’auto è stata eccessivamente dipendente dalla tecnologia diesel.

Per parte sua, il potere politico di Berlino ha coccolato la grande industria e ha sempre tutelato i suoi interessi all’estero. La “legge Volkswagen”, infatti, protegge la società da una scalata ostile. Ed è stato un ex top manager di VW, Peter Hartz, a scrivere nel decennio passato la legge di riforma del mercato del lavoro.
In compenso, il colosso industriale contribuisce alla stabilità dell’occupazione a livello regionale. E i meccanismi di voto nel consiglio di sorveglianza garantiscono che l’attività produttiva possa essere trasferita al di fuori della Germania solo con il consenso esplicito dei sindacati. In altre parole, ciò non può avvenire.

Merkel in VW
Merkel in VW

 

In termini di gestione del rischio macroeconomico, si tratta di una strategia sciocca – simile all’affidamento eccessivo che il Regno Unito ripone sui servizi finanziari. Queste strategie funzionano bene fino al momento in cui non funzionano più del tutto.
Per valutarne il più ampio impatto economico, è necessario considerare le dimensioni effettive dell’industria. Queste sono molto più grandi di quanto suggeriscano le statistiche ufficiali che non tengono conto delle interdipendenze tra i settori industriali. L’industria dell’auto è senza dubbio il maggiore acquirente unico di beni e servizi da altri settori. Secondo uno studio pubblicato nel 2008 dall’università di Mannheim, l’industria dell’auto valeva nel 2004 il 7,7% del valore aggiunto prodotto in tutta la Germania, la più alta percentuale di qualsiasi Paese al mondo. La Corea del Sud era al secondo posto con il 5 per cento. La maggior parte dei Paesi europei oscillava tra il 2 e il 4 per cento. L’industria dell’auto, come la manifattura tedesca più in generale, da allora ha fatto bene e oggi non mi aspetto che i numeri siano molto diversi.

Ci sono diverse variabili secondo le quali questa situazione può ora svilupparsi. Il miglior risultato per l’industria sarebbe un periodo di aggiustamento graduale. Di solito, però, la vita non riserva questo tipo di sviluppi. Un esito un po’ più probabile potrebbe essere un aggiustamento accelerato.
VW sta mancando l’obiettivo di un boom di vendite sul mercato Usa. Di conseguenza c’è già una perdita. Se iniziassero ad accumularsi, le perdite commerciali potrebbero facilmente superare i costi di qualsiasi risarcimento legale. Per mantenere le quote di mercato, Volkswagen dovrebbe praticare sconti sui prezzi di listino delle auto. Una combinazione di prezzi più bassi e di volumi di vendite inferiori è il presagio di un periodo di profitti in calo.

Un terzo scenario, ancora più drammatico, sarebbe la svendita di attività al fine di pagare i risarcimenti danni e le sanzioni. Questo sbocco potrebbe essere problematico dal momento che il gruppo Volkswagen funziona come un grande network just-in-time. Seat in Spagna e Skoda nella Repubblica Ceca, entrambe controllate VW, condividono la tecnologia del gruppo di Wolfsburg. Inoltre, poiché il sistema politico tedesco entra in convulsione al solo pensiero di una scalata straniera, per non parlare dello spauracchio dell’insolvenza, la mia ipotesi è che Volkswagen verrà mantenuta in vita attraverso una qualche combinazione di aiuti di Stato, nascosti o palesi che siano.

Tutto ciò potrebbe diventare via-via più costoso nel corso degli anni, e politicamente meno popolare. L’autovettura è un prodotto maturo. Gli atteggiamenti ambientali su scala globale si stanno orientando contro la tecnologia diesel e quelli sociali stanno prendendo di mira l’auto in quanto tale.
Vedo un interessante parallelo con la transizione dall’analogico o al digitale alla fine degli anni 70, quando i tedeschi stavano ancora sviluppando e potenziando le centrali telefoniche analogiche. Che funzionarono bene. E funzionarono meglio della generazione precedente, tanto che avevano un seguito di estimatori entusiasti. Solo che i consumatori non le volevano più.

I Paesi che fanno meno affidamento per la produzione su singoli settori reagiscono in modo più vigoroso quando arriva uno shock. Possono permettersi una politica di non interferenza verso settori specifici fintantoché l’economia è flessibile.
In Germania, tuttavia, non c’è una gran flessibilità tra i settori. Gli ingegneri dell’auto non si riqualificheranno professionalmente per lavorare nell’industria biotecnologica o – il cielo non voglia – nel settore dei servizi. La dipendenza tedesca da poche industrie è una delle ragioni perché è sempre stata piuttosto volatile all’estero l’opinione sulla Germania.
Tutto, infatti, era molto diverso solo dieci anni fa quando si parlava della Germania come del grande malato d’Europa. Trascorsi pochi anni, gli stessi osservatori additavano la nazione tedesca come un caso esemplare di economia competitiva. Il testimone del grande malato ora è nelle mani di qualche Paese ad ovest, come la Francia, o a sud, come l’Italia. C’è tanta volatilità in chi osserva quanta ce n’è nell’oggetto che viene osservato. Ma è l’oggetto in sé ad essere chiaramente volatile.

Questo è il motivo per cui lo scandalo VW conta davvero. Ha tutte le potenzialità per innescare una di quelle trasformazioni che potrebbero cambiare la realtà economica. E una volta che la Germania rallenta, lo stesso non potrà non accadere a un’Eurozona che sta oggi ripensando se stessa proprio in termini tedeschi.
munchau@eurointelligence
Copyright Financial Times 2015
(Traduzione di Marco Mariani)

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Le Sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo

la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata su ben 13 vicende giudiziarie che cittadini europei, e non, hanno sottoposto al suo sindacato. L’oggetto è, per tutte, il medesimo: violazioni dei diritti umani sanciti e protetti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo. Gli stati coinvolti e giudicati sono: Francia, Grecia, Azerbaijan, Belgio, Croazia, Russia ed Ucraina; tutti sono risultati colpevoli, a vario titolo, di quelle violazioni e molti dovranno risarcire i danni arrecati alle vittime.

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Corte Europea

Interim measures ed estradizione: come la Corte previene la violazione dei diritti umani
La giustizia che si può ottenere a Strasburgo non brilla di speditezza. Basta guardare le date in cui sono stati proposti i ricorsi di oggi (ve ne sono ben due del 2004!) per capire che ha ragione chi dice che la Corte Europea “è vittima del proprio successo“. Troppo ricorsi per un giudice che dovrebbe intervenire soltanto a quelle violazioni sfuggite dal controllo dei singoli paesi. Gli Stati controllano poco e male, e così i ricorsi fioccano in gran numero, intasando il giudice europeo e rendendo decennali i tempi di una causa. Non a caso le nuove tendenza di riforma del sistema convenzionale, che vengano dagli stati (il Protocollo XV ridurrà il termine entro il quale proporre ricorso da 6 a 4 mesi) o dalla stessa corte (le sentenze pilota danno respiro alla corte, mentre gli stati risolvono disfunzioni strutturali), sono nel senso di ridurre la mole del contenzioso..
Ma accanto a quel binario, rallentato e appesantito, ve n’è un altro, molto più spedito: la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo può concedere in tempi brevissimi Interim measures a favore del ricorrente per evitare e prevenire le violazioni dei diritti umani. Come le comuni misure cautelari, anche queste interim measures sono concesse non al termine bensì all’inizio di un processo, e servono non a fare giustizia (come la sentenza che accerta le responsabilità degli stati e dispone l’equa riparazione) bensì per prevenire una imminente ingiustizia.

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Romano Pisciotti: stop alle estradizioni

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