LA BANDIERA IN GINOCCHIO
(di Paolo Palumbo) 06/07/21
Pare strano vedere, in questi giorni, la bandiera italiana sventolare fuori dai bar, sui balconi oppure penzolare da qualche finestra di appartamento. Pare un’anomalia, ma ha un suo specifico richiamo: il calcio.
Ovviamente, in un paese dibattuto se inginocchiarsi o meno per una questione sulla quale non servirebbero gesti eclatanti, ma solo cultura e buon senso, la partita di pallone resta uno dei pochi eventi in cui il popolo italiano interpreta ancora con positività i colori della propria bandiera. In questa baraonda di entusiasmo, provocato dagli undici di mister Mancini, anche il mondo politico è in attesa di premiare i suoi eroi in calzoncini corti: qualsiasi sia il risultato, bene inteso.
Però esiste un mondo, meno affollato, dove la bandiera tricolore cadenza i ritmi della giornata: dal mattino in cui viene issata su un pennone sulle note dell’Inno nazionale, fino alla sera quando viene ammainata di fronte ad un picchetto tutt’altro che inginocchiato, bensì sull’attenti in segno di rispetto.
Si parla del mondo militare dove, storicamente, la bandiera ha un valore assoluto, sopra ogni cosa; se poi parliamo della bandiera di guerra di un reggimento, allora per essa si può anche morire.
Nelle guerre del passato, conquistare lo stendardo di un reparto avversario, equivaleva ad una vittoria senza precedenti, come del resto impedire che la stessa venisse catturata era questione di vita o di morte.
Lo stesso valore assume la bandiera di guerra quando viene portata in un “teatro operativo”, quasi a proteggere moralmente i soldati che la rappresentano. Così è stato per tutti i reparti italiani che si sono avvicendati in Afghanistan per vent’anni; impegnati in una missione che sembra già cotta e pronta ad entrare in quell’universo di oblio che ricorda tanto scenari già vissuti nei secoli scorsi.
L’Afghanistan, una guerra inconcludente, che però ha mietuto migliaia di vittime tra i civili e soldati di ISAF e Resolute Support. Tra questi anche molti italiani.
Ora, che si voglia o meno parlare della valenza politica di un conflitto secolare dove i centri di potere contrapposti non hanno mai appreso nulla, può anche andare bene. Tuttavia è sacrosanto ricordare che le pedine di questi bizzarri giochi politici sono sempre loro, i soldati, e per questo vanno rispettati a prescindere dall’ideologia scaturita da un conflitto.
Sicuramente il rientro dei soldati italiani dalla missione Afghanistan meritava più rispetto e il fatto che nessuna autorità politica si sia presentata ad accogliere il rientro della bandiera di guerra del 186° reggimento paracadutisti è un fatto davvero vergognoso, indegno e come sempre rivelante una mancanza, ormai cronica, di identità nazionale.
Non si tratta di celebrare o glorificare qualcuno o qualcosa i cui simboli possono essere più o meno condivisi (per carità, ognuno è libero di identificarsi con il tipo di nazione a cui si sente più affine), ma solo di rispettare chi ha fatto qualcosa per il proprio paese in un ambito dove nessun risultato è scevro dalla parola “sacrificio”.
Siamo di fronte ad una classe politica amalgamata e conforme ad un perbenismo e politicamente corretto, il cui potere stravolge la realtà e la rimodella secondo canoni prestabiliti da altri.
Percepiamo, da molto tempo, un mondo militare, quello italiano, che si sta affievolendo come una candela consumata dal vento e dove a rimanere in piedi sono sempre loro: i soldati.
Lo so, molti obietteranno come tra gli stessi militari, forse, non tutti abbiano bene in mente quale sia il vero significato della bandiera di guerra. Sono gli stessi detrattori che descrivono i soldati come semplici impiegati che al mattino timbrano la loro presenza in ufficio. Per l’amor del cielo, sicuramente in mezzo alla massa di stellette c’è chi la vede così, interpretando uno dei lavori più onorifici e onerosi del mondo, come un semplice impiego utile a raggiungere ad una pensione sicura. Può darsi che, un caporale, un sergente o un colonnello possano permettersi un pensiero simile (anche se ho forti dubbi sul fatto che lo facciano), ma non devono farlo i rappresentanti del governo, vale a dire gli stessi omuncoli in giacca e cravatta che hanno deciso come, dove e quando mandare i nostri soldati ad assecondare la loro politica asservita ai voleri del più muscoloso (asservimento è ormai una termine dominante nella politica estera italiana).
È questa la vera vergogna: una classe politica che, con la sua assenza, rinnega i suoi soldati al rientro da una missione voluta proprio da loro.
Sembra davvero inutile spendere parole per qualcuno che resta insensibile davanti ad un significato troppo profondo per essere capito. Vedremo, quando il circo calcistico concluderà le sue esibizioni, quanti saranno i politici affannati ad accogliere i valorosi azzurri al loro rientro in patria. Per carità, lo meriteranno sicuramente, tuttavia è sempre una questione di priorità, di scala dei valori; di saper interpretare, in modo più attento e coerente, quale sia il significato di “nazione”.
Credetemi, c’è una bella differenza tra rappresentare il tricolore su un campo di calcio o difenderlo in una FOB afghana.
ROMANO PISCIOTTI LIKE !!!